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Essere adolescenti ai tempi del Coronavirus

C’è una tortura insopportabile per un ragazzo o una ragazza nel pieno dell’adolescenza (12-17 anni), quella di dover restare forzatamente in casa.
E non per un giorno, ma per un mese, due mesi, come in questa emergenza sanitaria. E magari a stretto contatto con i genitori o con solo un genitore.
Nel momento in cui i figli si organizzano per togliersi (goffamente) dal nido materno, per fare a meno dei genitori, per sfuggire al loro controllo, si trovano chiusi in casa proprio con loro.
Gli ormoni e le emozioni esplodono senza mezze misure e talvolta in modo imprevedibile. Così capita che i genitori cercano il dialogo e la confidenza. E i figli invece cercano il distacco e l’autonomia. Insofferenti come sono della promiscuità coi genitori dai quali si sentono trattati in modo troppo infantile.
E quando la vicinanza è imposta da un’emergenza, gli adolescenti normalmente reagiscono con la provocazione: evitano di fare colazione, pranzo e cena assieme.
Se possono, sfuggono alle richieste scolastiche; stanno attaccati ai videogiochi ore e ore; scambiano la notte per il giorno (e viceversa) così che mentre gli “altri” dormono loro vivono finalmente…
Se il genitore si mette nella prospettiva di domare tutta questa energia, soprattutto in questi giorni di convivenza sanitaria costretta, rischia grosso.
E’ come mettere la benzina vicino al fuoco.
Meglio usare il vecchio sistema del bastone e della carota: una giusta misura di autorità e di libertà, di presenza e di assenza.
Insomma, questi sono i giorni della distanza educativa.

E’ bene:

1- abbandonare un modello comunicativo centrato sulla richiesta e sulla pretesa, ossia sul fatto che l’adolescente deva sottostare alle richieste dei genitori. Perché un’impostazione richiestiva porta inevitabilmente allo scontro, stimola nei figli adolescenti il bisogno di riproporre la propria richiesta di fuga e la propria presenza trasgressiva.

2- sospendere (non eliminare: sospendere) le imposizioni troppo personali, del tipo: “Voglio che tu ti esercitiin matematica; voglio che ti sbrighi a venire perché stiamo iniziando a mangiare; capisci o no che ti stiamo aspettando?; cosa devo fare per farmi ascoltare? È possibile che non rispondi mai al primo richiamo?”… Così non funziona, anzi: peggiora le cose.

3- è preferibile scegliere un modo indiretto per comunicare, che aggiri l’ostacolo di comando diretto (“io ti ordino/tu obbedisci”): per esempio è opportuno dare indicazioni di tipo organizzativo o di servizio. Che non fa entrare il genitore ma coinvolge un terzo elemento o un oggetto. Per esempio: “fa’ un piacere, guarda tuo fratello che non sa fare quell’esercizio di matematica”. Oppure: “c’è da portare fuori il sacchetto dell’umido”; o ancora: “se stamattina hai lezione on line c’è prima da rifare i letti”….

Questo tipo di comunicazione non chiede favori, non impone la volontà dell’adulto. Sono richieste di tipo oggettivo: non si può non fare lezione o non si può lasciare i rifiuti in casa né è possibile che il cane resti dentro tutto il giorno e che i letti restino da fare.
Si crea in questo modo una giusta distanza tra genitore e figlio, dove anche il ragazzo può riconoscere, pur nella difficoltà della reclusione in casa, la particolarità della situazione e adeguarsi il più possibile.

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